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Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa, non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi. (Fabrizio De André)

Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa, non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi. (Fabrizio De André)

Questi bellissimi versi aprono e chiudono la canzone “La guerra di Piero”, che è un inno contro la guerra. Peraltro il riferimento floreale mi fa ricordare un’altra canzone di quegli anni che precedettero di poco il ’68 e la rivoluzione studentesca, a far capire qual era lo spirito. Era cantata dai Giganti, ed è rimasta nota per la sua prima strofa-ritornello: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”.

Oggi viviamo in una realtà mondiale sempre più globalizzata, ove dovrebbe innescarsi un sentimento verso l’umanità vista come un’unica entità. La stessa pandemia ha fatto capire che per essere placata ha bisogno di una strategia complessiva che non trascuri nessun paese al mondo nella campagna vaccinale. Stessa cosa dicasi per l’emergenza ambientale.

Eppure continuiamo a sentir parlare di corse agli armamenti e di esperimenti nucleari e/o missilistici che contribuiscono ad alimentare inquietudine e pessimismo.

La frase di De André mi rimanda altresì a un piccolo grande libro, “Treni strettamente sorvegliati” dello scrittore ceco Bohumil Hrabal, che descrive nel finale l’assurdità della guerra in modo analogo a quello del cantautore genovese. Ecco il passaggio:

“E poi risuonò un’esplosione. E io che ancora un momento prima aspettavo quello spettacolo, continuando a star steso accanto al soldato tedesco, allungai una mano e aprii il suo palmo che si irrigidiva e ci misi dentro quel quadrifoglio verde che porta fortuna, mentre dalla campagna cresceva verso il cielo una nuvola a fungo […] e spinse il braccio e lo scosse, ma io tossivo e da me rantolava sangue. Fino all’ultimo momento, prima che cominciassi a perdere di vista me stesso, mi tenni per mano con quel morto…”

Per quanto possa apparire retorico, l’unica arma contro la guerra è l’amore. Ecco perché, visto che il romanzo di Hrabal trabocca anche di umanità e di immagini allegre, preferisco chiudere con questa indimenticabile scena di felicità per antonomasia:

“Pensavo a Masa, al nostro primo incontro, quando ero ancora dal sorvegliante di linea, che ci dette due secchielli di vernice rossa e ci disse di dipingere lo steccato intorno a tutta l’officina. Masa era agli inizi nelle ferrovie, proprio come me, stavamo l’uno di fronte all’altra, tra noi c’era l’alto steccato col fil di ferro, ciascuno di noi aveva ai piedi il suo secchiello di minio, ciascuno aveva il suo pennello e faccia a faccia spennellavamo, dipingevamo lo steccato, ciascuno dalla sua parte, sempre faccia a faccia, erano in tutto quattro chilometri di steccato, cinque mesi siamo stati così faccia a faccia ogni giorno e ci dicevamo tutto, ma tra noi c’era sempre quello steccato; dopo due chilometri di quello steccato una volta dipinsi di rosso i  fili all’altezza della bocca di Masa e le dissi che le volevo bene, e lei dall’altra parte dipinse il filo anche lei e disse che anche lei mi voleva bene… e mi guardò negli occhi, e siccome eravamo in un fosso, in un alto cespuglio di bietolone, porsi la bocca e attraverso quel filo dipinto ci baciammo, e quando aprimmo gli occhi lei aveva sulla bocca una piccola linea rossa e io pure, ci mettemmo a ridere e da allora fummo felici.”

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