“Cosa significa essere poeta in tempo di guerra? Significa chiedere scusa, agli alberi bruciati…” (Hend Joudah)

Cosa significa essere poeta in tempo di guerra?

Significa chiedere scusa,

[…] agli alberi bruciati,

agli uccelli senza nidi, alle case schiacciate,

[…] ai bambini pallidi, prima e dopo la morte

e al volto di ogni madre triste,

o uccisa!

Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra?

Significa vergognarsi,

del tuo sorriso,

[…] dei tuoi cari ancora vivi

[…] e del caso, che ti ha lasciato ancora in vita.

Mio Dio,

Non voglio essere poeta in tempo di guerra.

(Hend Joudah)

Domenica 8 giugno, dietro lodevole iniziativa di due librerie di Conversano, Bloombook e Ikigai, in piazza XX settembre c’è stato un reading per Gaza. Una trentina di persone – e tra di esse anche un rifugiato palestinese – si sono avvicendate al microfono per leggere brani o testimonianze che potessero essere collegate con la tragedia di Gaza, giunta a dei livelli davvero inimmaginabili.

Sono stato invitato anche io, e il caso ha voluto che qualche giorno prima avessi acquistato il libro “Il loro grido è la mia voce – Poesie da Gaza” dal quale ho letto la poesia di cui ho sopra stralciato alcuni versi, della poetessa Hend Joudah, che vive a Gaza.

La poesia è uno degli strumenti più potenti per lanciare le grida di dolore contro le atrocità della guerra. La letteratura mondiale è piena di versi che parlano di conflitti. 

In un precedente sassolino riportai per intero la poesia “Licenza di guerra” di Roy Fuller.

Straziante è la poesia “Veglia” di Giuseppe Ungaretti, che ricorda la terribile esperienza di una lunga notte sul fronte accanto al cadavere di un compagno caduto, mentre non si può non citare “Uomo del mio tempo” di Salvatore Quasimodo, che racconta l’evoluzione delle armi nel tempo, tutte tese al medesimo scopo: uccidere.

Ma, visto che lo scritto iniziale è stato composto da una poetessa, voglio chiudere con dei versi di Anna Achmatova, tratti dalla sua poesia “Dedica” del marzo 1940, ambientata a Leningrado, non foss’altro per il finale speranzoso:

“Ci alzavamo come per una messa mattutina,

camminavamo per la capitale inselvatichita,

là ci incontravamo, più esanimi dei morti,

il sole più basso, la Nevà più nebbiosa,

ma la speranza canta sempre in lontananza.”

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