“…alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca…” (Herman Melville, “Moby Dick”)

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e niente di particolare che mi interessasse a terra , decisi di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare (Herman Melville, “Moby Dick”)


Da qualche tempo ho fatto mio il proposito di imparare a memoria pezzi significativi della letteratura mondiale, incrementando in modo significativo un’abitudine che in realtà già avevo. Da questo punto di vista, riprendendo il titolo di un altrettanto bell’album di Fabrizio De André, sto andando “In direzione ostinata e contraria”.

Questa cosa sembrerebbe infatti un controsenso, visto che oggi abbiamo a disposizione, oltre alle sconfinate memorie elettroniche, anche Internet, Wikipedia, i motori di ricerca e in ultimo le chat bot dell’Intelligenza Artificiale.

Eppure, andando appunto in direzione ostinata e contraria, e ricordando che in lingua inglese “imparare qualcosa a memoria” si dice “to know something by heart”, ossia letteralmente “conoscere qualcosa col cuore”, arrivo a dire che talvolta ai freddi marchingegni elettronici bisogna preferire le vecchie abitudini mnemoniche, come quelle che ci portavano sin dalle scuole materne a imparare a memoria le poesie natalizie.

L’ultima cosa che ho terminato di memorizzare in questi giorni è quanto su riportato.

Il capolavoro di Melville comincia con uno dei più folgoranti incipit della storia della letteratura.

“Chiamatemi Ismaele” è un colpo di genio: mette subito in contatto diretto il protagonista narrante della storia con i lettori. Ma non meno interessante è il seguito, che si presta a qualche ulteriore considerazione che mi piace fare, visto che si parla di mare e siamo in piena estate.

Il mare è non solo la superficie più vasta del globo, ma è anche il luogo ove è nata la vita. I pesci sono – evolutivamente parlando – venuti prima degli anfibi, dei rettili, dei volatili e dei mammiferi. 

Pertanto il rapporto dell’uomo con le acque è, più o meno inconsciamente, un rapporto di vita. Lo stesso feto umano, prima di venire al mondo, sta nel liquido amniotico.

Vediamo dunque il povero Ismaele ricorrere all’acqua e al suo potere salvifico quando nota che sulla Terra ormai egli è preda della depressione, che può addirittura condurlo a propositi suicidi. Allora decide di mettersi in mare.

L’ultima malinconica considerazione è il fatto che la traduzione del Moby Dick del libro in mio possesso è di Cesare Pavese. Un buon traduttore è colui che compenetra profondamente il significato del testo nella lingua in cui è scritto e lo traduce nel migliore dei modi nella sua lingua nativa. Sicuramente Pavese appartiene a questa categoria. Purtroppo ciò non gli è bastato, se non è riuscito a trovare un suo mare quale surrogato della pistola e della pallottola con cui pose tragicamente fine alla sua vita. 

A nostra consolazione ci rimangono, immortali, le sue opere, anche se in questo momento la prima che mi viene in mente è una sua famosa poesia che oggi appare un presagio e che ha per incipit il seguente verso:

“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

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