Se avete in animo di conoscere un uomo, allora non dovete far attenzione al modo in cui sta in silenzio, o parla, o piange; nemmeno se è animato da idee elevate. Nulla di tutto ciò! Guardate piuttosto come ride”. (F. Dostoevskij)
L’estate, che stiamo vivendo nel suo pieno sviluppo, è senza dubbio la stagione in cui vorremmo che a prevalere fossero le emozioni più positive, di quelle che facciano buon sangue. E cosa più del riso si avvicina a tale obiettivo? Verrebbe da dire che più che le ferie estive dovremmo ambire alle celie estive. E se a qualcuno è scappato un sorriso, vuol dire che anche questo sassolino è su quella buona strada.
Tra le espressioni che la specie umana ha di esclusivo rispetto alle altre specie animali il riso è probabilmente la più peculiare. Con esso le qualità intellettive si attivano in modo deciso. Si ride o sorride perché si è felici, per una barzelletta, a seguito di una sottile ironia, si ride guardando un bambino scorrazzare per la casa, si ride o sorride quando si vede la persona amata o una persona verso cui si nutre ammirazione, quando qualcosa ci sorprende in positivo e così via. Pertanto, se nel mondo animale far vedere i denti è un segno inconfutabile di minaccia, per l’uomo tale atteggiamento è per lo più legato a quanto ora elencato.
Ma la frase di Dostoevskij va oltre. Il grande scrittore russo arriva a dire che attraverso il modo in cui ridiamo possiamo svelare meglio di altri atteggiamenti il nostro animo. È un’affermazione forte che mi ha rimandato a un episodio personale di cui vorrei parlarvi.
Quarant’anni fa stavo svolgendo il servizio civile alternativo a quello militare presso la Caritas diocesana di Bari. L’allora direttore, don Vito Diana – che non ho dubbi nel ritenere essere stato una persona in odore di santità – richiedeva all’obiettore di coscienza (all’epoca ci si chiamava così, perché la nostra scelta era ritenuta dallo Stato quasi una forzatura, tanto è vero che il nostro servizio civile doveva essere di 6 mesi superiore a quello militare) di non rientrare a casa la sera. Io scelsi di risiedere in una comunità di accoglienza per persone in difficoltà. Fu un’esperienza umana bella, forte e indimenticabile.
L’ultimo giorno del mio servizio, nel febbraio 1985, mi fecero, per così dire, una festa di addio. In quella occasione una delle ospiti della comunità non solo mi regalò un bel libro, che tengo gelosamente custodito, ma mi confidò anche una cosa.
Mi disse che quando arrivò in comunità mesi addietro la mia persona non le aveva suscitato particolari considerazioni, dandole anzi l’impressione di essere un tipo freddo e grigio. Ma poi soggiunse:
“Finché non ti ho visto ridere per la prima volta.”