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Albert Camus

FELICITA’ NELLA INFELICITA’?

[occhiello]

Che si possa essere felici nella morsa della sofferenza o dell’opprimente male appare contraddittorio, irrazionale, assurdo!
Di fronte all’oscuro e drammatico segno del dolore e del male, l’uomo, attraverso i secoli, ha levato in alto il suo grido: “Perché? Fino a quando…?
Il filosofo greco Epicuro (342 o 41-270 a.C.), poi, secondo quanto trasmessoci dallo scrittore cristiano Lattanzio (III-IV secolo d.C.) nella sua opera De ira Dei, aveva anche avanzato le seguenti alternative: “Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?”

Thomas Stearn Eliot (1888-1965), nei suoi Quattro Quartetti registra il mutevole comportamento del “popolo che può anche ridere, ma nel cui animo permane un’agonica sofferenza”.
Lo scrittore francese Albert Camus (1913-1960), d’altra parte, nel saggio “Il mito di Sisifo” dichiara: “C’è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se valga la pena vivere o no”.
Di tutt’altro e più pacato parere si rivela, invece, un altro scrittore francese, François Mauriac (1885-1970), che, in uno dei suoi Appunti scrive: “Il dolore è un terreno inquinato sul quale però sbocciano i fiori più puri della fede e dell’amore”.

Il mistero della sofferenza, come quello del male, si presenta quale riflesso di un mistero più alto, che trascende la ragione e fa appello ad una “razionalità” divina, ad un supremo disegno, universale e totale, onnicomprensivo e definitivo, che può essere in qualche modo colto, e dall’uomo accolto, attraverso la rivelazione.
Ne confessa l’accoglimento lo scrittore italiano Giovanni Papini (1881-1956), che nella fede aveva trovato la verità affannosamente e tormentosamente ricercata. Nelle prime battute del volume Le felicità dell’infelice – che ha suggerito il titolo del presente articolo – egli innanzi tutto rileva: “Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ridotto la malattia”; dichiara, poi, apertamente: “Ho perduto l’uso delle gambe, delle braccia, delle mani e sono divenuto quasi cieco e quasi muto”; si ritiene, infine e nonostante tutto, felice nell’infelicità per i doni che Dio gli aveva lasciato:…la fede, l’intelligenza, la memoria, la fantasia…l’affetto dei familiari, l’amicizia degli amici”.

Adesione totale al disegno divino intriso di sofferenza, serenità di animo e perfino felicità nella infelicità del corpo, fede e fiducia nelle luminose promesse del Signore sono le ripetute note che scaturiscono dalle lettere della ven. Benedetta Bianchi Porro (1936-1964). Per non dilungarci, ci limitiamo a stralciare alcune significative frasi da quella indirizzata, nel 1963, a Natalino, un giovane sofferente di una grave deformazione alla spina dorsale. “In Epoca – ella scrive – è stata riportata una tua lettera…Anch’io come te ho ventisei anni e sono inferma da tempo. Un morbo mi ha atrofizzata…quando ero laureanda in medicina a Milano. Accusavo da tempo una sordità…non creduta dai medici all’inizio…Poi il male mi ha completamente arrestata…ero all’ultimo esame. E la mia quasi laurea mi è servita solo per diagnosticare me stessa [neurofibromatosi diffusa]. Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista, ora è notte. Però nel mio calvario non sono disperata. Io so che in fondo alla via, Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora nel letto, che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza…Le mie giornate non sono facili, sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio. Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui”.

Dio e la sofferenza non sono in contraddizione, quando questa viene affidata a Lui, che sa purificare la nostra anima e renderci degni suoi cooperatori per la salvezza del mondo.
La risposta cristiana al misterioso problema della sofferenza passa, dunque, attraverso il mistero della Croce di Cristo. Una risposta sintetizzata dal poeta e drammaturgo francese Paul Claudel (1868-1955) con una folgorante espressione: “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla con la sua presenza”.
E il teologo Hans Küng avverte: “Dio non ci protegge da ogni sofferenza, ma ci sostiene in ogni sofferenza.

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