Come un padre misericordioso

di VITO FANIZZI (Giudice della Corte d’Appello di Bari)

“Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e lì sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava”.

C’è una parola sbagliata nella Costituzione italiana: “rieducazione”. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’ortopedia morale evocata dalla parola è quanto di più lontano ci sia dallo Stato democratico e liberale che i costituenti progettavano in quei momenti. Come è stato osservato, “lo scopo della correzione coattiva della persona è una finalità moralmente inaccettabile quale giustificazione della pena, violando il primo diritto di ciascun uomo che è la libertà di essere se stesso e di rimanere com’è” (Luigi Ferrajoli). Nobili e sacrosante le intenzioni, sbagliata la parola. Si è preoccupata la Corte Costituzionale, negli anni, di precisare la nozione, valorizzando il collegamento testuale e logico con il principio dell’umanità delle pene, conseguentemente affermando l’esigenza “di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale” (Corte Costituzionale, sentenza del 13 luglio 2017, n. 179). Quello indicato dalla Corte Costituzionale, quindi, è un percorso interiore del condannato, rispetto al quale lo Stato può svolgere solo un ruolo di stimolo: attraverso l’esperienza dolorosa della pena il condannato può prendere coscienza dell’azione compiuta, rivisitarla in modo critico, disporsi diversamente rispetto all’osservanza delle norme giuridiche. La relazione tra sofferenza e conoscenza evidenzia anche in questo ambito la sua validità.

“Allora rientrò in se stesso e disse: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame ! Mi leverò e andrò da mi padre e gli dirò: Padre ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono pù degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”. Partì e si incamminò verso suo padre”.

Il percorso di riconciliazione indicato dalla Corte Costituzionale non può prescindere da uno Stato autorevole ma non autoritario, forte ma non violento, che non confonde la misericordia con il lassismo. Solo uno Stato con queste caratteristiche può integrare il modello del padre della parabola evangelica, nei cui valori il figlio si riconosce, prima di tornare in quell’abitazione.

C’è una persona che ha fatto quel cammino, dopo 25 anni di detenzione e dopo aver collaborato con la giustizia allo scopo di “mettere fine a Cosa Nostra, una fabbrica di morte, un’agonia continua”: “Dopo il mio arresto ho toccato con mano il contrasto tra la mia disumanità e l’umanità dei rappresentanti dello Stato. Pensavo che mi avrebbero ucciso, invece mi hanno fatto incontrare mio figlio, ho ricevuto una lezione di morale che non potrò dimenticare”. E’ stata certamente una follia restituire la libertà ad un personaggio del genere. Sì, perché quella persona è Giovanni Brusca, reo confesso di 150 omicidi, tra cui l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo e quelli della strage di Capaci. D’altronde solo un pazzo poteva immaginare la storia del padre misericordioso.

“Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa”.

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