Ed è in certi sguardi che si vede l’infinito … Ed è in certi sguardi che s’intravede l’infinito … Ed è in certi sguardi che si nasconde l’infinito… (Franco Battiato, “Tutto l’universo obbedisce all’amore”)

Il lungo confinamento ci ha costretti a rinunciare a tante cose belle, molte delle quali talmente normali ed ordinarie che solo quando le abbiamo perse ce ne siamo avveduti.

Una di queste è lo sguardo. Abbiamo smesso di vederci. Per tanto tempo. E lo scenario delle persone in ospedale, soprattutto quelle di una certa età, che non potevano vedere i propri cari e dovevano accontentarsi dei medici e degli infermieri – eroi contemporanei – peraltro del tutto irriconoscibili nei loro “scafandri” protettivi, è stata una delle esperienze recenti più strazianti del nostro immaginario collettivo.

Ecco che il lento e, speriamo, sicuro ritorno alla normalità, ci sta facendo riapprezzare la bellezza e la profondità dello sguardo.

Nella intensa canzone citata di Franco Battiato, recentemente scomparso, vi è una specie di ritornello mutante che parla del rapporto tra lo sguardo e l’infinito, con un effetto di dissolvenza al progredire della canzone, che ha del geniale.

Il rapporto tra sguardo ed infinito ha permeato la storia della letteratura. Essendo questo l’anno dantesco non posso non citare il sommo poeta.

Nel XXXIII Canto del Paradiso, Dante riesce a vivere l’esperienza dello sguardo verso l’Assoluto e a farcene partecipi. Ecco la terzina in questione:

“Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:”

 Riporto il commento esegetico della terzina preso da una recente pubblicazione:

“Nella profondità della luce divina vidi racchiuse tutte le pagine sparse che compongono l’universo, lì riunite come in un volume tenuto insieme dall’amore”.

 Un altro notevole scrittore, Jorge Luis Borges, che di Dante era un grande ammiratore, ha scritto uno dei suoi racconti più famosi, “L’Aleph”, che parla di questa esperienza dello sguardo verso l’infinito. Borges sapeva, infatti, che il grande matematico George Cantor, inventore della teoria degli insiemi e scopritore dei numeri transfiniti, aveva utilizzato la prima lettera dell’alfabeto ebraico, “aleph” appunto, per indicare l’infinito.

 Ecco il passaggio fondamentale del racconto:

 “Vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra, e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.“

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *