Il processo

di Vito Fanizzi (magistrato Corte d’Appello di Bari)

Conversano – Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martelli sul cranio, perché dunque lo leggiamo ? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo dei libri e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo…Un libro dev’essere una piccozza per rompere il ghiaccio che è dentro di noi. Franz Kafka.

Il Processo” di Franz Kafka uscì postumo nel 1925. L’impiegato di banca Josef K., un mattino, è raggiunto nella camera da lui presa in affitto e posto in stato di fermo da alcuni solerti funzionari, senza una spiegazione: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”. Sicuramente un equivoco, pensa K. (il suo è uno stato di diritto, la pace regna tranquilla e tutte le leggi sono in vigore). Eppure già la vergogna lo pervade quando si accorge che l’affittacamere, affacciatasi curiosa per un attimo, immediatamente richiude la porta, come se non lo conoscesse.

Il Tribunale nel quale Josef K. si addentra alla ricerca di una spiegazione, è uno squallido condominio, con panni stesi ai balconi e bambini vocianti che corrono sui ballatoi (non ci sono marmi, stucchi o busti di giuristi insigni, in quel Tribunale). L’aria è soffocante. I giudici sembrano assenti e le persone che affollano i corridoi hanno schiena e ginocchia piegate (“se ne stavano come mendicanti di strada”). Joseph K. si avvicina ad uno di loro e chiede cosa aspetti. Quelle parole mandano in confusione l’uomo, che guarda gli altri presenti quasi in cerca di aiuto.

“Aspetto” – dice ad un certo punto, subito bloccandosi di nuovo. E poi, dopo uno sforzo: “un mese fa ho chiesto l’acquisizione di alcune prove nella mia causa e aspetto che la riserva sia sciolta”. “Sembra che la cosa le stia molto a cuore”, dice K “Sì – dice l’uomo – è la mia causa”. Il giudice incaricato del caso è un ometto grasso ed ansimante, che ride in modo sguaiato nell’aula di udienza, e neppure sa quale lavoro svolga K. (“Dunque, lei è un imbianchino”). K. rinuncia all’interrogatorio che pure il giudice gli offre, perché per lui tutto è assurdo: “Mascalzoni – gridò – ve li regalo i vostri interrogatori” (eppure quello spiraglio era da attraversare). Un sacerdote dal pulpito gli racconta la strana parabola di un uomo di campagna che chiede di essere ammesso alla Legge. Un pittore di nome Titorelli fornisce una spiegazione non meno misteriosa dell’accusa che incombe sull’impiegato. E proprio nello studio di Titorelli Joseph K. scopre che molti giudici del Tribunale sono i committenti dei loro ritratti, per lo più destinati a belle signore. In particolare, nel quadro che Titorelli sta dipingendo in quel momento, il giudice è ritratto nell’atto di alzarsi minaccioso dallo scranno, mentre alle sue spalle è abbozzata l’immagine della Giustizia, con la bilancia in mano e la benda sugli occhi (è impossibile penetrare quello sguardo). Titorelli continua a dipingere, conversando con K., e quasi inavvertitamente quell’immagine cambia sembianze: la figura “non ricordava quasi più la dea della Giustizia ma neanche quella della Vittoria, ora piuttosto aveva totalmente l’aspetto della Dea della caccia” (l’arbitrio del caso, la crudeltà delle forze impari).
La storia di Joseph K. finisce alla vigilia dei suoi trentuno anni, nel fondo di una cava di pietra abbandonata e deserta, dove è condotto da due signori in finanziera, pallidi, con il cappello a cilindro. Esaurite alcune formalità, un coltello è piantato nel cuore di K. e girato due volte: “con gli occhi che si velavano K. vide ancora, vicini al suo viso, i signori accostati guancia a guancia che osservavano il momento decisivo. “Come un cane !” disse, fu come se la vergogna dovesse sopravvivergli”. K. muore senza conoscere la sua colpa (nel processo penale la colpa può essere un dettaglio).

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