“Detestate pure la cattiva musica, ma non disprezzatela…” (Marcel Proust, Elogio alla cattiva musica)

Detestate pure la cattiva musica, ma non disprezzatela. Dato che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, e molto più di quella buona si è a poco a poco impregnata del sogno e delle lacrime degli uomini (Marcel Proust, Elogio alla cattiva musica)

È da poco passato il Festival di Sanremo, capace di tenere incollati davanti agli schermi o alla radio milioni di connazionali per cinque giorni. Quasi un rito collettivo. Chi ne rifugge sa di appartenere ad una minoranza.

A quest’ultima potrebbe venire forte la tentazione di considerare il livello delle canzoni rappresentate come di seconda categoria. Delle mere canzonette. E sarebbe un errore in fondo. Chi può giudicare le categorie di un componimento musicale?

Il canto è una delle tante peculiarità delle specie umana. Anche il cinguettio degli uccelli, che sogliamo chiamare canto, in realtà non lo è, essendo un verso, gradevole e ripetitivo, un richiamo d’amore.

Il canto è qualcosa di speciale. Ricordo che un sacerdote una volta mi disse che chi canta in chiesa prega due volte. La poesia è in molti casi chiamata canto, alludendo alla sua grande forza evocativa, che afferisce direttamente a ciò che ci è più caro: le nostre emozioni.

Ecco perché sono sorprendenti – ma solo fino a un certo punto – le parole di Proust ad elogiare la cosiddetta musica cattiva, che oggi chiameremmo musica leggera.

Una musica, leggera sì, ma fatta di sogni e di lacrime degli uomini, come balsamo dei nostri dolori. A suggello della famosa e universale esortazione: “Canta, che ti passa!”

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