Si racconta a Oggiconversano.it un artista poliedrico prossimo a partire in Senegal per un progetto teatrale
Domenica 4 febbraio presso la Pinacoteca di Conversano andrà in scena “Alla corte delle vanità”: un racconto teatralizzato da Lino De Venuto, che vedrà come attori lo stesso De Venuto insieme a Renato Curci e Rosamaria Pepe.
Abbiamo incontrato Renato Curci (autore, attore e comico, nato a Bari e residente a Conversano) per parlare di quest’opera che lo vede protagonista. Ci ha raccontato dei suoi esordi, del ruolo che oggi ha l’attore e dei suoi progetti futuri; abbiamo provato a mettere al centro della nostra conversazione i problemi della nostra società e di come l’arte, in questo caso quella del teatro, potrebbe dare risposte.
Di cosa parla il lavoro che presentate domenica 4 febbraio in Pinacoteca?
Questo lavoro, dove io non sono regista ma attore, è un tentativo molto interessante di rendere viva la fruizione delle opere di Paolo Finoglio, che sono esposte nella Pinacoteca, attraverso un’azione teatrale che riporta in vita il Guercio delle Puglie, Giangirolamo II e la moglie del conte, Isabella Filomarino, che era una mecenate. Io interpreto Il Finoglio, che nell’opera parla di se stesso e dei sui quadri. A differenza di altre rappresentazioni della Gerusalemme Liberata, opere singole, quelle del Finoglio sono opere che seguono un filo narrativo e sono concatenate: ed io come pittore (e come attore), mi emoziono raccontando la storia e il significato di queste opere, cercando di coinvolgere le persone del pubblico con una descrizione non solo teorica o scolastica, ma trasmettendo anche l’ansia, la passione e l’atto creativo del pittore. C’è una frase finale dove Paolo Finoglio dice alla gente: non fermatevi sui dettagli o sul significato più recondito del quadro, ma cercate di godere della bellezza di ogni mia opera. C’è da dire una cosa, che io sottolineo da anni, ogni opera d’arte riuscita riesce a trasmettere al pubblico gioia di vivere. Gioia di vivere che viene persa nel nostro mondo per problemi più mentali che pratici. Nel terzo mondo questa gioia di vivere è persa per problemi legati alla miseria. Questo smarrimento è un dato che accomuna tutto il pianeta. Ogni opera d’arte ben riuscita riesce a restituire almeno per qualche giorno un amore alla vita. Al di la del significato politico, estetico o religioso, ogni opera d’arte, anche quelle nate da un atto creativo apparentemente neutrale, se fatta bene, ottiene questo straordinario impatto quasi terapeutico.
Secondo te il mestiere di attore ha anche un ruolo politico?
Sicuramente. Se pensi a quello che è successo con Grillo dove degli spettacoli comici si sono trasformati in un movimento di popolo che ha coinvolto tante persone. Io per esempio sto facendo un lavoro che ha una forte valenza politica attraverso il teatro forum (che diventa anche teatro legislativo), dove il pubblico sale sule palco e improvvisa con gli attori, e in certi casi propone addirittura delle leggi che servono a risolvere alcune situazioni. Comunque l’attore è più una parte e uno strumento di questa azione: il ruolo politico lo affiderei al teatro tout court. In Italia da questa punto di vista siamo rimasti un pò indietro. Nelle università si studia ancora il teatro didattico di Brecht, e va bene. Ma in realtà esiste un movimento mondiale che è il teatro pedagogico di Augusto Boal, di cui sono stato allievo. Adesso vado in Senegal per un lavoro, per un lavoro prettamente politico, dove per un mese starò in quartiere periferico di Dakar a lavorare sui problemi della comunità locale e a cercare di risolverli attraverso il teatro. Ho fatto un lavoro simile a Conversano, che non hanno visto in tanti, perché io non ho un amministratore o un manager che amplifica delle operazioni che andrebbero invece molto valorizzate. A Conversano abbiamo rappresentato un episodio di bullismo accaduto in un scuola di Casamassima, ed è stato messo in scena nella sala convegni di San Benedetto.
La storia che ho messo in scena mi ha permesso di utilizzare anche giovani migranti ospiti nelle strutture di accoglienza presenti nel nostro territorio. Dopo la rappresentazione il pubblico è salito sul palcoscenico e per un’ora ha improvvisato, cercando delle strategie che potessero risolvere questa situazione incresciosa relativa a questo episodio di bullismo.
Quando hai cominciato a recitare e dove?
Ho iniziato a 16 anni con il Centro Universitario Teatrale di Bari, unico liceale in un gruppo di persone più adulte. Poi sono stato uno dei fondatori del teatro Kismet.
Un ragazzo che oggi vuole intraprendere la carriera di attore cosa deve fare?
Se il ragazzo è benestante il percorso istituzionale migliore è la scuola Paolo Grassi di Milano. Però ha bisogno del supporto della famiglia perché gli orari, l’intensità dello studio non gli permetterebbero di fare altri lavori per mantenersi agli studi. Per tre anni ha bisogno di essere sostenuto economicamente. Se non è benestante può provare a leggere il mio libro “Teatro di Liberazione” che insegna a fare spettacoli di strada e quindi cominciare a vivere di quello che la gente gli offre. E’ un libro interessante perché nel teatro di strada non serve solo una buona tecnica per recitare ma devi imparare la tecnica di coinvolgere il pubblico, dove collocare lo spettacolo, a che ora cominciare e come chiedere l’offerta. Eccetera, eccetera. Nel libro scrivo di come creare l’architettura di uno spettacolo di piazza con o senza l’uso di parole: cioè verbale o non verbale, come quelli di clown, giocoleria, mimo, eccetera. Uno spettacolo con lo stile di un Dario Fo è difficile da incontrare in strada, perché in strada è difficile usare le parole, che sono sempre legate percettivamente a un qualcosa che può risultare imposto, manipolatorio o violento. Il maestro del mio maestro, da me intervistato (l’intervista è presente nel libro), era una specie di Dario Fo, cacciato da tutte le università peruviane, perché molto a sinistra. Trovatosi in una situazione economica critica, aveva una famiglia da mantenere, sviluppò una tecnica di spettacoli di strada dove alternava il mimo con la parola teatrale.
Io nel manuale insegno l’arte della strada perché la strada è sempre un momento che poi ti riporta in altri ambiti, se lavori bene, anche in teatro. E’ una specie di lancio professionale che un piccolo gruppo può mettere in atto per emanciparsi e per non subire il giogo opprimente di qualche padroncino. Molti sedicenti registi spesso usano la voglia di fare dei ragazzi frustrando le aspirazioni artistico-creative che ogni giovane che voglia fare l’attore si porta sempre dentro.
Hai progetti per il futuro?
Ho sempre progetti per il futuro. A Cozze, questa estate, mi è venuto a trovare il mio maestro, che ha adesso 72 anni. Io invece ne ho 64, e ogni tanto pensavo alla pensione prossima. Lui è un mimo e un’artista di figura che mischia il mimo con il teatro di figura (lo stesso dei burattini, per intenderci). Lui a 72 anni fa questi spettacoli e non pensa di smettere. Victor Borge era un clown e musicista che ebbe fortuna in America, morì a 91 anni, e quattro giorni prima di morire aveva fatto il suo ultimo spettacolo. Adesso faccio un teatro che utilizza due registri espressivi: da una parte il teatro di figura, che non ha parole e mi permette di andare molto all’estero. Ma uso anche il teatro forum, della scuola del Teatro dell’Oppresso, dove metto in scena i problemi sentiti da una comunità.
Ho appena finito un progetto nel carcere di Altamura con il bravo Pietro Buscicchio, psicologo di Conversano, e sto per iniziare un lavoro al carcere di Turi e poi sto andando in Senegal e sto preparando uno spettacolo di clown come solista anche se a me piace condividere la scena. L’arte teatrale svela più delle altre arti il bisogno che tutti noi abbiamo degli altri. E se ho bisogno di te, come posso mai pensare di esserti superiore?