di Candida De Toma e Massimo Diciolla
L’8 febbraio scorso, quasi in sordina, il Parlamento italiano ha approvato definitivamente la riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione, elevando per la prima volta la tutela dell’ambiente e degli animali a rango costituzionale.
È la prima volta che si interviene a modificare uno dei “principi fondamentali” della Carta, ovvero quei primi dodici articoli, che – come noto – costituiscono le nostre ineludibili fondamenta ordinamentali (sistema democratico, diritti inviolabili dell’uomo, uguaglianza, autonomie locali e minoranze, laicità, ecc.)
La svolta green è stata in realtà spinta da una procedura di infrazione intrapresa dalla Commissione UE a carico dell’Italia: in effetti, se la Costituzione italiana si è sempre distinta per essere all’avanguardia, talvolta profetica, su molti principi rispetto ad altre Carte fondamentali e alla stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’attenzione che essa riservava alla questione ambientale non era ormai più adeguata ai tempi che corrono.
Prima della novella, il termine “ambiente” ricorreva infatti solo all’art. 117, che riserva allo Stato la competenza legislativa esclusiva a riguardo; invece, il termine “animale” non compariva mai.
La riforma introduce un terzo comma all’art. 9 “[La Repubblica] tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”; inoltre, modifica i commi secondo e terzo dell’art. 41 prescrivendo che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in danno “alla salute [e] all’ambiente” (oltre che ai previgenti valori di sicurezza, libertà e dignità umana) e che la legge debba indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini “ambientali” (non solo ai già previsti fini sociali).
Il salto di qualità semantico e precettivo del nuovo art. 9 è evidente: da un fugace accenno alla tutela del “paesaggio”, si passa a una ben più ampia e pregnante tutela di “ambiente, biodiversità ed ecosistemi”, peraltro declinata in chiave prospettica, a beneficio cioè anche di chi verrà dopo di noi; la riserva di legge statale sulla tutela degli animali imporrà invece una razionalizzazione della normativa a riguardo, spesso blanda o disorganica, con la ovvia precisazione che ciò dovrà riguardare non solo gli animali d’affezione o produttivi, ma anche e soprattutto quelli selvatici, la cui presenza, oltre a contribuire alla biodiversità, costituisce il primo indice rivelatore di un ambiente salvaguardato.
Se è indubbia la novità apportata attraverso il terzo comma, forse meritano una riflessione, non più approfondita, ma di diverso “segno”, non prettamente giuridico cioè, i termini paesaggio e tutela contenuti dall’art. 9 sin dalla sua prima formulazione. Fondamentale premessa è che questo articolo nella carta costituzionale della neonata Repubblica si rivelò di una modernità e novità sulle quali ben poco si è soliti soffermarsi: nessuna altra Costituzione del tempo poneva come fondante la promozione della cultura e della ricerca scientifica e addirittura la tutela del paesaggio (e di questo non dovremmo mai smettere di essere grati a Concetto Marchesi e Aldo Moro che vollero assolutamente questo articolo).
Se è pur vero che nella visione dei padri costituenti l’idea di paesaggio era, in una ampia misura, quella di Benedetto Croce, che lo identificava con “la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari”, è peraltro vero che già dagli anni ’60 il dibattito intorno al concetto di paesaggio è andato incontro ad una radicale trasformazione e ridefinizione.
Predieri, assistente di Piero Calamandrei nel 1947-’48, a proposito del secondo comma dell’articolo 9, già nel 1969, affermava che “la tutela del paesaggio assoggetta la dinamica delle sue trasformazioni e quindi gli interventi sul territorio […] ogni modificazione del suolo comporta modificazione del paesaggio” (si pensi alle colture intensive dei “tendoni” che distruggono contestualmente ambiente e paesaggio).
Si è nel tempo compresa, dunque, la strettissima interdipendenza tra paesaggio ed ambiente. In un Paese per un verso fortemente antropizzato e per l’altro, caratterizzato da una estrema varietà morfologica, geografica, climatica, i caratteri ambientali hanno determinato una varietà e ricchezza paesaggistica difficilmente riscontrabile altrove. Ergo, tutelare il paesaggio significa tautologicamente tutelare l’ambiente e viceversa.
La cementificazione delle coste non è solo un assalto al paesaggio, definitosi nel tempo attraverso una armonica relazione tra uomo e territorio, ma è un assalto all’ambiente e quindi agli ecosistemi, alla flora, alla fauna. Nella “terra dei fuochi” il disastro ambientale è contestualmente disastro paesaggistico. Pertanto, fino a che punto sono “nuove” le novità introdotte attraverso il terzo comma dell’art 9?
In realtà quella che è mancata alla giurisprudenza italiana sembra sia stata la capacità, la volontà, forse, di riflessione, di aggiornamento intorno ad un concetto di paesaggio inclusivo di tutto ciò che concerne l’ambiente.
Ma al di là di questo, un interrogativo desolato incombe: basterà aver incluso ambiente, biodiversità ed ecosistemi perché davvero cambi qualcosa? Oltre settant’anni di art. 9 hanno evitato oltre settant’anni di distruzione di paesaggio, di intrecci tra cattiva politica e affarismo?
Forse è ad una riforma dell’intero sistema che si sarebbe dovuto pensare. L’ apparato statale appare infatti del tutto inadeguato nel dare attuazione al principio costituzionale consegnando la promozione della cultura e la tutela del paesaggio ad una politica sostanzialmente inadempiente, sia a livello centrale che territoriale. Inadempiente nel migliore dei casi, connivente nel peggiore.
E per concludere: l’aggiungere, relativamente all’azione di tutela, quell’ anche nell’interesse delle future generazioni” appare forse pleonastico, certo non agli uomini di legge, ma a coloro che operano e si occupano di tutela, per i quali unico fine è preservare per consegnare a chi viene dopo, essa esiste in quanto e fino a quando penseremo ad un futuro
Quanto al nuovo art. 41 vincola ulteriormente la libertà di iniziativa economica, imponendole esplicitamente, d’ora in poi, di non danneggiare “salute [e] ambiente”, valori sintomaticamente elencati prima di quelli, già previsti e altrettanto decisivi, della sicurezza, libertà e dignità umana.
C’è quindi finalmente del “verde” nella nostra Costituzione! Resterà tutto sulla… Carta? Storicamente, i principi fondamentali hanno innervato profondamente la struttura normativa ed economico-sociale del nostro ordinamento, imponendo che questa dovesse rigorosamente misurarsi e adeguarsi agli stessi; si ha quindi motivo di ritenere che, in futuro, anche questi nuovi principi fondamentali saranno in grado di condizionare in meglio i paradigmi mentali, d’azione, giuridici e giurisprudenziali dell’agire umano, specie in ambito economico.
Prevedibilmente, d’ora innanzi, le iniziative economiche, specie quelle più impattanti (si pensi alle trivellazioni petrolifere, le grandi infrastrutture, i grandi stabilimenti inquinanti, le grosse speculazioni edilizie, l’agricoltura intensiva, ecc.), dovranno confrontarsi su qualcosa di ben più impegnativo del classico e abusato confronto “lavoro vs. salute”, “sviluppo vs. conservazione di qualche quercia secolare”: sul tavolo, la meritevolezza e la legalità dell’iniziativa dovranno misurarsi, oltre che con la contingenza del momento (necessità e convenienza dell’intervento, rapporto costi/benefici, ecc.), anche e soprattutto in termini di ecosostenibilità nel lungo periodo.
La nostra Costituzione torna quindi all’avanguardia anche su questi temi cruciali per l’avvenire: da oggi, soprattutto per certe iniziative ad alto “rischio”, si imporrà un vero e proprio patto tra generazioni che eviti nuove “Taranto”, dove i bambini d’oggi scontano sulla propria pelle le ricadute ambientali di scelte economiche effettuate settant’anni prima.