La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare. (Pietro Calamandrei)

In questi mesi di cattività è circolata molto questa frase di Calamandrei, uno dei padri della nostra Costituzione. Avvertiamo infatti più che mai l’esigenza di uscire, ritrovarci con gli amici, andare a cinema, teatro, concerti, musei, oltre che nei locali e ristoranti. Sentiamo, insomma, che ci manca fortemente la libertà.

Già, la libertà. Un concetto che ha visto stuoli di filosofi impegnati a definirla, analizzando le sue mille sfaccettature, ogn’or cangianti.

Il problema è che la libertà non è limitata semplicemente a una questione di movimento. Su questo assunto vorrei fare una serie di riflessioni letterarie, tese a sparigliare le carte.

Lo scrittore savoiardo Xavier de Maistre, vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, quand’era un giovane militare fu tenuto agli arresti domiciliari a seguito di una storia controversa. Invece di subire quei 42 giorni come una segregazione, fece della sua stanza un universo immaginifico, che descrisse nel suo romanzo “Viaggio intorno alla mia camera”. Conclude tale libro con le seguenti parole:

“Mi hanno vietato di attraversare una città, un punto qualsiasi, ma mi hanno lasciato l’universo intero: l’immensità e l’eternità sono ai miei ordini.

Oggi, dunque, sono libero, ma direi piuttosto che torno in prigione!”.

La lettura di questo libro, che ho fatto mesi addietro, e la sorprendente conclusione – uscire dalla propria stanza ed entrare nella prigione del mondo -, mi ha fatto tornare in mente un articolo molto interessante letto sul Corriere della Sera una quarantina di anni fa.

L’autore era Andrej Sinjavskij, uno scrittore russo che fu internato nei Gulag per le sue idee, neanche tanto sovversive. Dopo qualche anno fu scarcerato e si trasferì a Parigi dove fece parte del gruppo di dissidenti sovietici.

Di quell’articolo mi rimase impresso il fatto che Sinjavskij, uno scrittore dalla prosa brillante, arrivasse a dire che in realtà nella sua vita c’è stata una sola situazione in cui si sentì veramente libero: quando era in prigione.

Ma dopo aver seminato questi dubbi letterari, per non turbare più di tanto l’anelito verso la libera uscita che ci sta ormai pressando, bisogna ammettere che, salvo le interessanti eccezioni di cui sopra, l’uomo è nel profondo del suo essere un animale sociale, e che pertanto difficilmente tollera periodi troppo lunghi di segregazione. Il filosofo Blaise Pascal, a tal proposito,  ebbe a dire:

“Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: dal non sapersene stare tranquilli in una stanza.”

Aspettando il buon esito degli sviluppi pandemici e vaccinali, non mi resta che citare, in conclusione, una canzone di Giorgio Gaber:

“La libertà è partecipazione”.

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