Suor Jolanda Kafka, da S.M. dell’Isola a Presidente dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali

A colloquio con una personalità dal respiro internazionale che ha vissuto a cavallo degli anni ’90 nella nostra città. In tanti a Conversano la ricordano ancora per la capacità di animare S.M. dell’Isola che divenne punto di riferimento per tantissimi giovani

Conversano – A Suor Jolanda Kafka, polacca e missionaria clarettiana, è legato un pezzo di storia dell’oasi di S.M. dell’Isola. Dove ha passato pochi anni, sul finire degli ’80, in una delle sue prime esperienze da missionaria. Un periodo in cui S.M. dell’Isola divenne centro di incontro, oppure un vero e proprio “hub” come lei stessa definisce quel luogo “neutrale d’incontro“. Era una predestinata, e in tanti glielo dicevano sin da allora. E quelle previsioni sono state profetiche tanto da vederla, oggi, impegnata a livello internazionale quale Presidente dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali, dopo essere passata prima nel consiglio superiore del suo ordine e poi Superiora Generale delle Religiose di Maria Immacolata, missionarie clarettiane.  Una personalità nel mondo della chiesa e delle missioni a cui naturalmente lei affida un ruolo di semplice servizio. In un atteggiamento di modestia che è sempre stato il segno distintivo di una suora che, giovanissima, aveva animato con le sue sorelle di ogni età un luogo a noi molto caro. Chi ha conosciuto suor Jolanda Kafka non ha dimenticato il suo tratto di rara umanità e gentilezza, accompagnata da una cultura aperta ad ogni dialogo. Anche quello più distante dalla sua visione.
Tornò nella sua Polonia, a Varsavia, nel 1990 “a mettere su la casa delle clarettiane missionarie”. Luogo dove, nell’ottobre dello stesso anno, mi recai a trovarla con l’avv. Pasquale Loiacono. Eravamo ad un anno dalla caduta del muro di Berlino, Varsavia si presentava come una città triste e presentava il conto con scene che in Italia ce le avevano raccontate solo riferite all’immediato dopoguerra: le file per avere del pane razionato.
Suor Jolanda Kafka l’avevamo conosciuta anche allora per un’intervista rilasciata al periodico Il Sasso nello Stagno, tanto ci intrigava quella figura nuova, fresca e che portava una ventata di “internazionalismo” nella nostra città. Oggi vive a Roma con altre sue sorelle e con suor Lia Latela, nostra concittadina da tempo nella capitale. La pandemia ha fermato il continuo giro del mondo di Suor Jolanda Kafka ma non i suoi approfondimenti e i suoi continui contatti con le periferie del mondo stesso. Quelle a cui lei continua a dedicare il suo impegno.

Lei ha passato circa due (?) anni a Conversano, presso l’oasi di S.M. dell’Isola. Che ricordo ha di quella esperienza della fine degli anni ’80?

Veramente è stata un’esperienza molto bella e direi fondante nella mia vita come religiosa, come missionaria. Ritorno ed attingo da quest’esperienza nella memoria e con tanto affetto.

S.M. dell’Isola divenne un centro di grande interesse giovanile dove si manifestava la pastorale diocesana. Cosa è cambiato rispetto a trenta anni fa circa questi centri di aggregazione giovanile?

Sì l’isola era come un “hub” – un luogo neutrale di incontro. E lì ci radunavamo quasi ogni mese con i giovani della diocesi o dei paesi vicini e ed era un laboratorio di fede, di relazioni e  di amicizie. Non sostituiva quello che avveniva nelle parrocchie ma dava un appoggio. Certamente la capacità delle comunità parrocchiali di congregare i giovani forse è diminuita, ma il bisogno da parte dei giovani non è diminuito. Forse sono le persone  di riferimento che mancano, non tanto i luoghi. Persone integre che siano capaci di stare con i giovani, di ascoltare loro e di nutrire la loro vita credendo in loro e potenziando tutto quello che sono e che cercano. Persone che non “acchiappino” i giovani ma che camminino con loro.

Cosa ricorda della Settimana Santa a Conversano?

Ricordo questo tempo delle settimane Sante con grande tenerezza e devozione. Vedendo tutta la cittadinanza, o la maggioranza, che si congregava intorno ai misteri che non sono unicamente espressione della nostra fede ma anche della cultura. Tutte e due molto legate a Conversano. Quel convento dell’Isola che durante la notte del giovedì Santo diventava un luogo di preghiera e di silenzio molto intenso. Anche se non mancavano  i canti, né le bancarelle, ma nell’ambito della chiesa e del chiostro c’era un senso di venerazione, di appartenenza a qualcosa o a qualcuno che ci convocava. Vedere sfilare la città intera è impressionante. Ho pensato tante volte che queste persone mi hanno evangelizzato. Ci hanno fatto vedere come ci tengono a quel Crocifisso come un testimonial della loro storia, della loro vita.  Qui eravamo tutti uguali in questo chiostro. Forse il buio della notte ci permetteva anche di ovviare alle sembianze particolari e ai dettagli delle persone; eravamo un po’ tutti padri ma spirituali come quel Nicodemo che di notte andava a trovare a Gesù per non essere riconosciuto.

E, soprattutto, quali sono le persone di Conversano a cui lei pensa spesso? E perché?

Penso a tante persone e i loro nomi sono rimasti nella mia memoria e ogni volta che apro l’album dei ricordi trovo i volti familiari. Alcuni addirittura sono sempre in contatto e abbiamo possibilità di aggiornarci sulla città e la loro vita.  Ci sono delle persone emblematiche per me e che hanno segnato; dovrei fare una lista lunghissima con il timore di lasciarne fuori alcuni. Per questo preferisco parlare di ciò che ci convocava come il santuario dell’Isola, gruppi “Shalom” e gruppi dei giovani e le parrocchie.

Lei è una cittadina del mondo. Le sue missioni si allargano dall’Africa all’America Latina. Qual è la situazione nel mondo circa le disuguaglianze?

Dal punto di vista sociale dobbiamo fare una distinzione tra quelle aree che sono sotto l’influsso della economia e del mercato globale e quelle aree che non lo sono. Pensiamo alle grandi città di tutti i paesi e la vita nelle grandi città è simile, tenendo in mente le varianti di opportunità. Quelle che rimangono molto diverse e quello che troviamo nella grande città dell’Honduras, la Nigeria di Timor Leste sarà molto simile alle nostre città. Quello che fa male è la disuguaglianza delle opportunità, cioè della possibilità data a tutte le persone, a tutte le famiglie che possano usufruire dei benefici che dovrebbero rappresentare un diritto: parliamo dell’acqua, dell’energia elettrica, della casa, sicurezza, salute, di una prevenzione sociale; parliamo delle opportunità di educazione di diritto alle cure.

Ma se poi partiamo dalle città e ci inoltriamo nelle zone rurali, anzi nelle zone dove neanche esistono paesini ma ci sono piccole colonie nell’Africa, nell’Asia, In America … ma anche nella nostra Europa, vediamo che quei beni che noi abbiamo a disposizione, tante volte anche a costo dello sfruttamento del cosiddetto terzo mondo, non sono accessibili. Per questo i 17 obiettivi dello sviluppo delle Nazioni Unite sono un argomento sul quale tutta l’umanità, e la chiesa (insieme alle congregazioni religiose), si impegnano; rappresentano un traguardo nel quale tutti devono sentirsi responsabili. Io posso andare in vacanza a Dubai però devo sapere che quel lusso è anche frutto di uno sfruttamento; posso andare alla gita in Safari africano però devo sapere che la maggior parte dei beni naturali dell’Africa non è gestita dai loro governi.
Poi ci incontriamo con situazioni molto concrete dove una persona malata di cancro deve pagare una fiala di chemio-terapia € 800 e se ne ha bisogno di 10 dosi … questa persona non è capace di pagarlo con il proprio lavoro né con il lavoro di tutta la sua famiglia; allora si, che tocchiamo una ingiustizia grandissima che avrà bisogno di anni per essere sanata.

Quanto è importante avere una visione planetaria per la risoluzione dei problemi della sopravvivenza?

Credo che negli ultimi mesi abbiamo sentito molte volte, ripetutamente riecheggiare questa espressione che da una crisi possiamo uscirne solo se procediamo insieme (ce lo ha detto anche Papa Francesco).  È impossibile guardare solo il mondo a partire dal fabbisogno di un gruppo di persone oppure a partire dalle possibilità che esistono offerte solo a un gruppo di persone. Se il nostro benessere aumenta il numero dei danneggiati … allora questo benessere è ingiusto. Lo abbiamo sentito ripetere però questo richiede un cambio grandissimo del nostro stile di vita. Credo che ci stiamo accorgendo che dobbiamo rallentare, condividere meglio. Dobbiamo rispettarci di più nella diversità e condividere perché non possiamo frenare la storia che sempre è stata testimone di un intercambio di nazioni, di culture e di razze.

Lei è una missionaria clarettiana. Cosa significa oggi essere missionari? Qual è la sua missione?

Sono membro di un istituto religioso che è nato nel secolo XIX nella colonia Spagnola in Cuba, come una risposta alla situazione della Chiesa rivolto al servizio dell’annuncio del Vangelo, promuovendo l’educazione delle bambine e  delle donne specialmente negli strati più poveri della società per contribuire alla trasformazione. Questo annuncio visto dai nostri fondatori è sempre considerato come annuncio di testimonianza, poi con le parole e con i progetti concreti.

Prima l’essere missionari veniva immediatamente associato alla partenza per un luogo lontano dove nessuno conosceva il Vangelo; oggi come risultato del Concilio Vaticano secondo abbiamo recuperato una dimensione missionaria universale della chiesa e cioè dovunque ovunque esiste un credente c’è la responsabilità della testimonianza della fede.

Fare una scelta per tutta la vita per rendersi disponibile a questo servizio, questa è la vocazione missionaria. Come religiosa e missionaria mi sento profondamente unita a questa missione della chiesa e coltivo dentro di me la disponibilità.  Questa vocazione la viviamo in comunità e la viviamo con la consacrazione che è un impegno condiviso con altre donne di diversi paesi. Non dimentichiamo, però, che questo non è solo prodotto di un desiderio ma è qualcosa che viene da dentro e da un’esperienza spirituale che vivo come dono di Dio.

La mia missione adesso e accompagnare, aiutare nei discernimenti della congregazione per portare avanti e far crescere il carisma, lo spirito, lo stile proprio che abbiamo come missionarie clarettiane.

Si può dire che lei era una predestinata. Prima nel consiglio superiore, poi Superiora Generale delle Religiose di Maria Immacolata, missionarie clarettiane e Presidente dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali.  Una personalità nel mondo della chiesa e delle missioni. Eppure c’era chi le aveva predetto una carriera di questo tipo. La si può chiamare carriera? Oppure….?

Sì, delle persone mi dicevano: te l’avevo detto, te l’avevo predetto. Ma io continuo a sorprendermi da come la vita evolve e come attraverso le persone, attraverso la mia congregazione e attraverso la Chiesa  il mio cammino si è così sviluppato. Credo che il Signore Dio mi ha creato con delle capacità ma innanzitutto di essere aperta a Lui. Non ne sono proprietaria …, questo è un dono ed io mi rendo disponibile ogni giorno; non sempre generosamente né con l’umiltà di chi tutto ha ricevuto. L’unica cosa che ho è la mia vita, non ho altro. Non possiedo nessun bene, solo la mia vita che mi è stata donata. Allora non c’è una carriera, c’è sempre un servizio, in diversi ambiti. Lo sto imparando da Gesù.

Cosa impedisce alla Chiesa di riconoscere alle donne e alle suore di assolvere a funzioni prettamente maschili? Quanto è anacronistico il ruolo che viene riservato alle donne vocate?

La Chiesa è inserita in una società, in una cultura e in una storia. La nostra cultura è fondamentalmente maschilista; quella cioè occidentale e la gran parte di noi proviene da questa cultura. Non possiamo però guardare la Chiesa solo come una organizzazione  di diversi ruoli e  funzioni. Papa Francesco sta continuando un cammino iniziato da Paolo VI e lanciato dal Vaticano II. Dare più spazio al genio femminile nella relazione corresponsabile, con tutti i battezzati. C’e da camminare nella consapevolezza di essere sorelle-fratelli e tutti discepoli di Cristo.

Secondo lei è vicino il momento in cui per le suore e i sacerdoti ci sarà la possibilità di mettere su famiglia? Dove finisce il dogma e dove comincia la ragione? Sono temi in discussione nel vostro mondo?

La vocazione alla vita consacrata è una chiamata  non solo a seguire lo stile di vita di Gesù (impegno di tutti battezzati) ma rappresentarlo nella forma di vita che Lui assunse. Lui scelse di essere nubile per dare tutto se stesso ai piu fragili, bisognosi e per rendere visibile l’amore di Dio Padre che è fecondo.

Credo che la preoccupazione non è tanto il celibato o no, con famiglia o senza, ma  la coerenza con cui si testimoniano i valori evangelici. Anche se stanno sorgendo alcune forme di vita consacrata in famiglia, la scelta del celibato rimane come una possibile scelta libera e consapevole ed è una delle tante vocazioni. Per quanto riguarda il sacerdozio è una norma della Chiesa che continua ad essere in vigore.

Le donne polacche, le sue connazionali, stanno combattendo e scendendo in piazza per rivendicare il diritto all’aborto che le autorità nazionali hanno ritenuto fuori legge, se non in casi molto particolari. Cosa ne pensa di questa situazione e della Polonia come terra governata da sovranisti?

Deve scusarmi se la mia opinione è troppo vaga perché mi mancano i dati. Le donne polacche stanno manifestando nelle strade e si manifestano non contro la modifica della legge … ma a favore dell’aborto. Si.

Credo che mancano gli organi di dialogo ma anche la consapevolezza della strumentalizzazione mediatica che è fortissima. In un governo che cura gli interessi di tutti polacchi ci deve essere lo spazio di dialogo formale, cioè legislativo e sociale, sul come regolare meglio la legge sull’aborto.

Purtroppo le posizioni estreme vengono associate alle posizioni di fede e della Chiesa (a favore o contro) insieme alle posizioni politiche. La difesa della sovranità nazionale è troppo vincolata in alcuni punti ad alcune  posizioni della Chiesa. Non sono d’accordo con la forma delle manifestazioni né con l’immagine della donna che emerge da queste manifestazioni. Ma neanche sono d’accordo con una certa chiusura che, se è vera, rende più difficile considerare il governo come organo che cura tutte le persone di una nazione, indipendentemente dalle loro confessioni.

Papa Francesco è il papa di tutti. Ci ricorda Papa Giovanni XXIII nei modi e nell’essere “rivoluzionario”. Eppure c’è una grande resistenza nei suoi confronti in ampie sacche degli apparati ecclesiastici. Che aria tira in Vaticano?

Sì, certamente basta leggere alcune pagine che lo dimostrano, per esempio per la visione del dialogo con altre religioni, anche per il modo con cui critica il clericalismo: Quando chiede una Chiesa più povera e distaccata dai beni e dal profitto, questo tocca le coscienze e le strutture che come “strutture umane” hanno sempre questo segno di ambiguità. Ma Papa Francesco ci invita a una opzione più vicina al Vangelo e allora questo ci mette in connessione con la stessa storia di Gesù; i contrasti che vediamo riflettono lo stesso meccanismo di rifiuto che soffri Gesù.  Francesco è un Papa di discernimento e anche se è un leader esorta sempre al confronto e all’ascolto degli altri e continua a procedere con la speranza che lo Spirito riconduce a un cammino che non deve essere uguale per tutti ma almeno sincronico. E anche io ho questa speranza. Recentemente anche il Cardinale Parolin ha parlato della realtà molto chiaramente.

La pedofilia negli ultimi tempi ha toccato da vicino i piani alti del Vaticano. Cosa ne pensa?

E un male atroce che ha colpito la vita di tante persone e negli ultimi anni il problema é stato affrontato con molto coraggio dagli ultimi Papi; non solo per rispondere tempestivamente alle denunce e ai problemi che esistono ma specialmente per prevenire affinché questo accada attraverso la sensibilizzazione e formazione. Sempre, quando tocca la vita delle persone, è un dolore più grande come lo è anche lo scandalo. La determinazione è di partire dalle vittime nella ricerca della giustizia e recupero dei danni nella vita delle persone colpite.  Chiunque sa dei casi deve denunciare.

La chiesa, lo sappiamo, non è solo il Vaticano. Sono anche le periferie del mondo presidiate anche in sostituzione delle istituzioni. Perché c’è questa grande differenza tra il centro e la periferia? Lei, per il ruolo che ricopre, adesso è costretta a vivere le periferie ma ad avere rapporti molto stretti con gli apparati. Come si sente in questo doppio ruolo?

Veramente è una tensione. Ma esisteva da sempre ed è una tensione che si può vivere in un modo creativo. Cerco sempre di mantenermi nell’ascolto della realtà delle periferie, attraverso incontri diretti.  Adesso che non sono possibili, lo faccio attraverso i mezzi virtuali. Invece a partire da un “apparato” come lei dice , a partire da una istituzione, quando essa è nell’ascolto della realtà, è possibile accompagnare e tracciare dei progetti a lungo termine che non dipendono solo dalle persone specifiche, concrete, ma possano essere continue. E questo è un grande vantaggio di una comunità o una organizzazione. Prestare attenzione alle periferie e al centro è un’arte che si impara. In questo momento, a livello della Chiesa, una modalità alla quale siamo invitati come metodo e come forma è la sinodalità. Per me è una grande speranza.
Ho fiducia nelle istituzioni ma è vero che vorrei partire dal centro e stare a servizio nella periferia.

La pandemia ha bloccato anche le sue missioni. Qual è la situazione pandemica nei paesi dove lei si reca molto spesso? Cosa le raccontano le sue sorelle africane?

Ha bloccato quelli posti di missione che sono strutture come centri di salute o centri di educazione . Ha paralizzato specialmente di più i luoghi dove non esistono connettività di internet e/o della radio che facilitano uno studio a distanza. Anche dove lo stato non da sopporto alle istituzioni confessionali lì proprio stiamo nelle strette dal punto di vista economico. Ciò però non ha chiuso la missione perché ha sviluppato delle iniziative nuove con creatività, specialmente nell’ambito di solidarietà con tutta la precarietà che è frutto della pandemia e con la necessità di accompagnamento delle persone, bambini, anziani, ammalati e i giovani.

Ha ancora senso la clausura? E lei ha mai avuto la “tentazione” della clausura?

Il modo di capire la presenza della vita religiosa nel mondo è evoluto. Papa Francesco ha spinto molto sulla dimensione di presenza evangelica “in mezzo al popolo” e questo sta dinamizzando molto la vita consacrata in tutte le sue forme. Ha senso sempre uno spazio privato ed intimo dove la comunità religiosa ha cura speciale di meditazione, preghiera, di fortificazione  delle relazioni. Ci sono ancora ed esistono luoghi dove la vita religiosa preferibilmente si svolge all’interno di questo spazio come sono i monasteri contemplativi. E’ forse strano però, in questo tempo della pandemia, proprio questi centri hanno sviluppato in molti casi una prossimità, se pur attraverso i mezzi virtuali, molto accogliente per tante persone dal punto di vista sia dell’attenzione che di proposte e riflessione al fine di poter riempire questo tempo con senso.
Abbiamo bisogno di questi spazi e sono paradigmatici anche al nostro tempo frenetico.

Lei vive a Roma, almeno ufficialmente, anche se gira il mondo. Che idea si è fatta di questa nostra Italia che conosce ormai da più di trenta anni?

Amo l’Italia e mi trovo molto bene tra la gente, nella sensibilità umanista e gioiosa verso la realtà, amo l’arte e la cultura e la storia nella quale il convivere di diversi modi di pensare, dal punto di vista sociale o religioso, hacreato un tessuto molto particolare, ricco e sempre da scoprire. Mi preoccupa che sta crescendo, invece, la intolleranza verso le differenze e mi preoccupa anche la poca dedizione alla gioventù socialmente parlando, una gioventù che è smarrita.

Quanto le pesa dal punto di vista psicologico e fisico l’essere la Presidente dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali di tutto il mondo?

Prima di tutto è una grande ricchezza con la quale sono a contatto in molte opportunità di incontri, anche multidisciplinari. Ricchezza di diversi carismi, culture, visioni… L’unione è principalmente una piattaforma di incontro per le religiose ma stiamo camminando in rete con tante istituzioni ecclesiali a cominciare dai religiosi, e anche  non ecclesiali. E’ un contributo per raggiungere l’orizzonte di  “Fratelli Tutti” per un cammino molto più inclusivo.

Sì, porto una tensione in più, tensioni per affrontare e cercare insieme i cammini per illuminare il tempo in cui viviamo e le sue sfide. Come continuare a motivare la crescita delle religiose, della Chiesa, delle donne… non sono domande facili però non sono sola. Sono con un’ equipe di 10 sorelle con le quali il dialogo, questo cercare insieme, è molto ricco e il gruppo direttivo è formato da rappresentanti di tutti i continenti. Ciò mi porta anche a pregare di più per non entrare nella tentazione di preoccuparmi troppo, come se le cose dipendessero da me…;  e tenermi in guardia per ascoltare, che non è mai abbastanza.

Qual è il suo filosofo preferito? E perché?

Non ho un filosofo preferito e neanche ne conosco tanti… Quelli classici come Heidegger mi hanno aiutato un poco a mettermi alla ricerca essenziale della ragione della esistenza umana; ma oggi  leggo tra quelli che cercano di spiegare ciò che avviene, in questo senso mi aiuta Bauman, Lipovetsky; cercano di spiegare la postmodernità e la fragilità dell’oggi.

Suor Jolanda, cos’è l’amore eterno?

È Dio!

Dio nella vita nostra che ci rende capaci di amare, cosi come ci ha creati … ci ha reso capaci di trascendere noi stessi nel desiderio di essere amati con la capacità di accogliere; e di amare… volere il bene dell’altro e farlo veramente (bene della verità, della libertà e della giustizia).

Ma l’amore, nel camminare umano è sempre un ambiguità perché si confronta con l’inganno primordiale che  portiamo dentro: quello della paura di essere amati e della paura di donarci perdutamente.

Ci piacerebbe che lei salutasse la città di Conversano che l’ha apprezzata e la ricorda in più occasioni. I ventenni di allora che lei ha conosciuto, adesso hanno cinquant’anni. E ci saluti Suor Lia che condivide con lei la missione e con noi la conversanesità. Torni a trovarci.

Saluti a tutti amici e conoscenti…

 

Suor Jolanda con un gruppo di conversanesi durante la sua permanenza presso S.M. dell'Isola
Suor Jolanda con un gruppo di conversanesi durante la sua permanenza presso S.M. dell’Isola

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