Se i sogni durano un attimo, l’attesa del sogno consuma una vita. (Michele Campione, critico d’arte)

La vita è una sala d’attesa che dura una vita. Mi verrebbe da cominciare con un giochino di parole questo appuntamento settimanale, che si incentra sulla parola attesa.

Samuel Beckett, il drammaturgo alfiere del teatro dell’assurdo, intitolò il suo dramma più famoso “Aspettando Godot”. In esso i due strampalati protagonisti, immersi in un non luogo, aspettano per tutta la durata dello spettacolo la venuta di Godot, cosa che non avverrà.

Godot e la sua attesa sono entrati nel linguaggio comune, ad indicare il vano aspettare persone o situazioni che diano una svolta alla nostra esistenza, che è una caratteristica costante della nostra vita. Anche la fine dello spettacolo sconcerta: entrambi i protagonisti si dicono di andare, ma non si muovono, e cala il sipario.

Dino Buzzati ha scritto il suo capolavoro, “Il deserto dei Tartari”, il cui protagonista, il tenente Giovanni Drogo, passa tutta la sua esistenza nella Fortezza Bastiani, nella vana attesa dell’invasione dei Tartari, che dia movimento, emozione, e significato al suo vivere. Uno dei passaggi chiave del romanzo è il seguente:

“L’esistenza di Drogo si era come fermata. La stessa giornata, con le identiche cose, si era ripetuta centinaia di volte senza fare un passo innanzi. Il fiume del tempo passava sopra la Fortezza, screpolava le mura, trascinava in basso polvere e frammenti di pietra, limava gli scalini e le catene, ma su Drogo passava invano; non era ancora riuscito ad agganciarlo nella sua fuga.”

In questa occasione, non volendo proseguire oltre nelle incursioni letterarie sul tema, sottoporrò in chiusura al paziente lettore un mio micro-racconto, inedito, scritto anni or sono.

“IL TAVOLINO

Un incontro può valere solo per un momento, o per tutta la vita.

(Anonimo)

Era lì, al solito bar, alla solita ora, con un vestito fuori moda. Il suo fare distinto mal celava un senso di inquietudine che si leggeva nella curva increspata delle sopracciglia.

Prese il tè e se lo versò in quello strano bicchiere trasparente. Mise con cura mezzo cucchiaino di zucchero, prelevato da un contenitore variopinto di ceramica. Bevve a piccoli sorsi, vedendo sempre al di là delle persone che, numerose, le passavano davanti.

Sembrava immobile, come se il tempo le si fosse fermato assieme al suo vestito. Prese lo specchietto dalla borsetta e si ravvivò i capelli con un gesto meccanico. I suoi occhi guardavano oltre.

Guardavano nel vuoto, in quel punto lontano in cui i lati della strada si toccano all’infinito.

In quella convergenza, eterea e impalpabile, si consumava in lei, ogni giorno, il rito dell’attesa.”

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