Nel giorno della memoria le sensazioni e “il punto di non ritorno” di chi quel luogo lo ha visitato
Conversano – Il mio,invece, è il racconto difficile di un’esperienza che strappa il cuore dal petto. Difficile scriverne e difficile fotografare. Ci sono momenti in cui il dolore è così forte e, oserei dire, surreale da renderti incapace di parlare, piangere e muoverti.
Quando ho deciso di mettere piede nel luogo dell’orrore, della morte e della crudeltà umana, l’ho fatto consapevole che sarebbe stato un punto di non ritorno.
È così che ho scoperto che Oswiecim, una piccola cittadina ad una sessantina di km da Cracovia, con un nome quasi impronunciabile per chi non avvezzo all’idioma polacco, è diventata tristemente il manifesto di una delle più grandi tragedie umane che ha coinvolto l’intero pianeta.
Non conoscevo Oswiecim.
Conoscevo, conosco e conoscerò per sempre AUSCHWITZ, l’equivalente traduzione in lingua tedesca di Oswiecim.
Parlare di Auschwitz non è semplice.
Tutto sembra sempre così distante da noi, lontano anni luce. Eppure, adesso, sono qui. Nel luogo del dolore. Nel luogo della Memoria.
E’ un attimo. Vengo catapultata in un ricordo passato che, seppur non faccia parte direttamente della mia storia privata, è ugualmente parte di tutti noi.
Una famiglia arrivata dopo un estenuante viaggio viene smembrata pezzo per pezzo, senza pietà, senza alcuna spiegazione razionale. Scesi dal treno, a destra “gli abili” , a sinistra “gli inabili”. Questi ultimi sono uomini senza più alcun valore, che non servono più a nulla, pronti per l’ingresso nelle camere a gas.
Tornata al presente, mi rendo conto che sto calpestando lo stesso suolo che è stato il punto di non ritorno della storia mondiale.
“Arbeit Macht Frei”. Il cancello è qui davanti a me.
È surreale essere ad Auschwitz qui ed ora.
Da qui in poi, i miei occhi vedono, le mie orecchie ascoltano, il mio cuore si riempie di emozioni difficili da raccontare. L’orrore perpetrato in questo campo (e negli altri che, man mano hanno riempito l’Europa) è impensabile e difficile da elaborare totalmente.
Passo dopo passo, si susseguono numerosi e ordinati caseggiati. Sono i “Blocchi”. Vi è una parvenza di normalità e di ordine. La realtà è ben diversa. Ciascun blocco è contrassegnato da un numero: 24, 14, 6… Ciascuno racchiude al suo interno il proprio triste e orribile capitolo di questa storia. Numeri che hanno un significato, una storia, una orribile e indicibile verità nascosta al proprio interno. Nel Blocco 11, venne sperimentato il gas Zyklon B. Il gas che avrebbe portato alla morte milioni di persone.
Il Blocco 10 è chiuso al pubblico, per sempre. Troppo doloroso anche a distanza di anni elaborare ciò che avveniva lì dentro. È il Blocco degli esperimenti medici. Il Blocco in cui spietati “medici” nazisti cercavano il modo per perfezionare la razza. Terribile anche solo il ricordo. Al suo interno sono morte centinaia di donne e quelle sopravvissute sono ugualmente “morte dentro”.
Ho sentito tanto, ho visto troppe cose, il cuore mal sopporta questo orrore. Ci sono storie di bambini che è difficile ascoltare.
Tutto è morte qui.
Cumuli di valigie, cataste di oggetti personali, montagne di scarpe, raccontano la vita di chi, in questo campo, ha trovato solo la morte ad accoglierlo.
Il senso di smarrimento e di nausea è così forte che a tratti è necessario fermarsi, prendere aria e cercare un motivo per credere ancora nella bontà del genere umano.
Il colpo di grazia sopraggiunge entrando nelle camere a gas. Il silenzio è assordante. Sembra di sentire le urla di chi qui è morto.
Tutto è morte qui.
Auschwitz ha “accolto” così tante persone che, ad un certo punto, negli anni, è stato necessario costruire campi satellite lungo il percorso della ferrovia. Auschwitz I è il campo di concentramento, ma è Auschwitz II (Birkenau) quello di sterminio. A seguire, poi, Monowitz (Auschwitz III) e altri 45 campi più piccoli in un’area di 40 km.
Seguendo il percorso della ferrovia, partiamo alla volta di Birkenau, i binari e la sagoma dell’edificio sono tristemente noti a tutti.
“C’è troppa pulizia a Birkenau”. Queste le parole di una deportata tornata a distanza di quasi 50 anni nel campo.
Ha ragione.
Il contrasto è evidente.
Nonostante le macerie dei forni crematori e il fango che ci accompagna passo dopo passo, il campo appare fin troppo ordinato rispetto ai terribili racconti di ciò che accadeva qui dentro.
È fin troppo pulita la baracca (ricostruita) dove i deportati “vivevano” condividendo una tavola di legno con altre 2 o 3 persone. Corpi senza anima.
“Niente calca o sporcizia, niente fetore, né fumo, né urla, solo baracche vuote perfettamente restaurate. Ai ragazzi dico: chiudete gli occhi ascoltando il mio racconto”. Io ho seguito il consiglio di Ginette Kolinka durante questo viaggio atroce, complicato, difficile da raccontare.