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Per Luciano era vietato vietare
Luciano Nonna

Per Luciano era vietato vietare

A Luciano  piaceva comunicare con le parole e con i segni. Per lui non c’era argomento che non meritasse di essere affrontato durante una partita di tressette o sui gradini della ricevitoria del totocalcio sul Largo della Corte o sulle panche di “Matteo” in piazza Battisti. Si poteva parlare di tutto ma su quasi tutto si arrabbiava perché polemizzava sul sistema, sulla coerenza del comportamento umano, sull’organizzazione del potere e sulla visione ideale della vita. Spesso sovrapponeva modelli umani  impossibili a condizioni di fatto inesistenti, manifestando  tutto il suo idealismo. L’idea fondamentale per lui era “vietato vietare”: un evidente e sublime contraddizione. E non l’ho mai sentito avere pretese di coerenza se non quella del possibile rispetto di se stessi e degli altri ammettendo i vizi ed i difetti del mondo, le piccole e le grandi debolezze. Non era intransigente.  Se poi un’idea poteva aver valenza pubblica, anzi collettiva, allora meritava di essere senza dubbio pubblicata e diffusa ed il miglior sistema il più semplice e diretto in un epoca che lontanissima, priva di social-network e connessioni analogiche con fibra ottica, erano i “dazebao” o “tazebao” ossia bacheche mobili, generalmente di legno, sulle quali si poteva affiggere il manifesto, il disegno, uno scritto in genere. Tanto era l’amore di Luciano per la comunicazione che ogni suo atteggiamento esteriore era destinato a palesare ed a manifestare quello aveva nell’anima. Anche il suo abbigliamento era un discorso su qualcosa: sulla banalità della seriosità a tutti i costi, sulla possibilità di abbinare anche i toni che sembrano o dovrebbero essere più contrastanti, sulla comunanza di vedute con tutti i popoli e le genti della terra, sulla scelta di appartenere ad un genere prestabilito oppure no, sulla sana incoerenza delle  cose possibili e tanto altro ancora. Nell’abbinamento di calze rosse su pantaloni a strisce verticali bianche e blu, camicia lilla-fucsia, bretelloni e cappellino verde oppure nei completi tutto rosa dalla testa ai piedi c’era altro che un vestito: c’era la pelle del giorno o del periodo, c’era un messaggio, c’era un manifesto  ambulante.

Una frase ricorrente era: “el travajo es la muerte de l’hombre” ossia il lavoro è la morte dell’uomo. Lui non amava il lavoro anzi rovesciava l’imposizione culturale occidentale del lavoro che sublima. Contestava qualunque possibilità salvifica del lavoro che al più vedeva come il mezzo per il soddisfacimento del bisogno immediato nella prospettiva di una collaborazione sociale tesa a ridurre la fatica per ricevere il giusto,  per vivere senza affannarsi alla ricerca dell’eccessivo. Eppure quando ha lavorato facendo quello per cui evidentemente era portato, abbinando capacità artigianali ed artistiche all’inessenza dell’esperienza, è riuscito a dare voce e spazio anche quelli che talvolta sono troppo prima o sono un po’, ed anche troppo, oltre.

Luciano adorava la sua famiglia d’origine ed era orgoglioso del suo essere “nonnett” e di tutta la sua stirpe: dei genitori, dei fratelli, dei nipoti e perfino di generi e cognati e suoceri. Amava Gianna che era la sua dea e non servono molte parole per questo amore che merita un accenno perché non era amore solo di passione ma anche di amicizia e compagnia: non ho mai sentito Luciano parlare di altre donne con voluttà non tanto e non solo per una sana pigrizia ed innata indolenza, quanto per la lealtà nei confronti della persona che gli stava accanto tutti i giorni e tutte le notti e stava li, era lui  e con lui aveva generato la vita che aveva ricevuto il nome di un conquistatore di libertà.

Luciano era un mite ed avversava ogni forma di arroganza: sia  quella della persona forzuta che mostrava i suoi muscoli per imporsi sugli altri, sia  quella di certe istituzioni che schiacciano l’uomo e la sua dignità. Però non ho mai capito se per lui il raggiungimento di un obiettivo superiore legittimasse l’uso della forza, ma non mi sembrava un non-violento a tutti i costi e neppure un lupo ammantato da pecora. Certo non avendo lui una prestanza fisica tale da incutere timore preferiva utilizzare argomentazioni ed esempi per spiegare ed affermare il suo punto di vista ma avrebbe pure potuto scegliere altro tipo di violenza; io l’ho visto essere mite e disponibile con i più deboli anche di fronte alle meschinità che a volte proprio la debolezza produce.

Luciano ascoltava la musica ed inventava strani proverbi e regalava “cassette musicali” con raccolte di brani come fossero il tema di un film invisibile e diffondeva i suoi motti come fossero il riflesso di uno specchio deformato. E’ stato un uomo più leale che onesto, anche con se stesso, con molti piccoli vizi che gli facevano la pancia rotonda ed il fiato corto. In fondo per lui poche cose avevano senso e tra queste proprio l’idea che la vita di ciascuno dovesse avere un senso e che deve essere vissuta assaporandone il gusto come quando si mangia una ciliegia matura dall’albero.

C’è chi vive a grande velocità, chi invece lentamente lentamente: Luciano ha vissuto guidando un motorino che ancora gira nelle teste, nei cuori e nell’anima di chi l’ha conosciuto.

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2 commenti

  1. BEN DETTO VINCENZO!
    GRAZIE LUCIAO!

  2. Giuseppe fanelli

    Gran bella persona. Difficile da dimenticare e facile da ricordare. Persona sempre rispettosa con tutti alla quale era impossibile non dargli la propria amicizia. Nonnet.

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