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IL FINITO “ESIGE” L’INFINITO

[occhiello]

“Quella voragine [della nostra anima] – scrive Blaise Pascal, matematico e filosofo francese più volte citato nei nostri articoli – non può essere riempita che da un oggetto infinito e immutabile, cioè Dio stesso…Nulla nella natura è stato capace di prendere il suo posto”.

Un posto a volte vuoto… che può provocare un incessante tormento, un ricorrente desiderio, una inquietante nostalgia. In questo contesto si inserisce la vicenda umana e spirituale del poeta italiano Salvatore Quasimodo (Modica 1901-Amalfi 1968), premio Nobel per la letteratura nel 1959.
Abbandonata la sua famiglia e la sua terra, di cui rievoca nelle prime raccolte di poesie personaggi e paesaggi, trascorre una giovinezza disordinata. La fede ricevuta nella infanzia e mai rinnegata, resta inaridita e, pertanto, incapace di porgere stimoli per la vita di credente.
D’altra parte, l’invito a spirituale “ascesi”, rivoltogli dall’amico e corregionale Giorgio La Pira, viene ritenuto “follia e illusione” dal poeta, che però si sente sollecitato ad avvicinarsi alle Confessioni di Sant’Agostino, alle Lettere di San Paolo, e al Vangelo di Giovanni, che traduce direttamente dal greco, rimanendo affascinato dal dramma della passione di Cristo, pur senza comprenderne la profondità del mistero.
La sua ricerca religiosa si trasforma così in continuo tormento. Più volte, in piena notte, un Quasimodo “tempestoso” sveglia Padre Nazareno Fabbretti per chiedergli: “Ma insomma, si può sapere perché veniamo al mondo? E dov’è Dio? Perché non mi parla? Non vede che sono come Giobbe, alla crisi estrema della sua latitanza? Io gli ho chiesto di aiutarmi ad amarlo, è il mio fine necessario…ma poi…ma poi…”.
Il poeta, avvolto nella solitudine e nella precarietà del suo destino, descritto in tre ben noti versi (“Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”), rimane comunque in attesa che “Qualcuno verrà”.
Vogliamo sperare che l’attesa non sia stata vana!

Un approdo in Dio…è, invece, quello dello scrittore e saggista olandese Pieter van der Meer (1880-1970). Proveniente da famiglia protestante, imbevuto di pensiero nietzschiano e marxista, a vent’ anni termina gli studi universitari di filologia classica e viaggia per l’Europa senza precisa motivazione. A ventidue anni (1902) sposa una militante socialista.
Nel 1909 l’incontro con Léon Bloy, scrittore francese e cattolico entusiasta, di cui andava leggendo le pubblicazioni, lo pone sulla via della conversione. Riceve il battesimo nel 1911 insieme con il figlio Pieter-Léon: “Come ho fatto – dirà – a vivere tanti anni senza Dio?”.
Dolore e mistero segnano, poi, la sua vita. Nel 1955, rimasto solo per la morte dei suoi figli e della moglie, entra in un monastero di benedettini e si prepara al sacerdozio.
Le sue pagine Diario di un convertito, Tutto è amore, Il paradiso bianco…sono una esplosione di amore e di luce.
“Ciò che non è l’infinito – egli dichiara facendo eco alla espressione di Pascal – si mostra troppo piccolo per il cuore dell’uomo!”.

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